S. KUBRICK Eyes wide shut Dico che non mi vedo (o stravedo)
Un grande letto matrimoniale accoglie le vostre letture parallele.
I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore1
Era per l’appunto una nottataccia d’inverno. Riformulo, era per l’appunto una nottataccia
d’inferno 2. Un semplice refuso può innescare una drammatica ed incontrovertibile dislocazione del
corpo del soggetto.
La notte in questione è quella di Bill (Tom Cruise) in Eyes wide shut del maestro Stanley Kubrick, film
che più di ogni altro celebra lo sguardo ed al tempo stesso la sua chiusura, ma anche le sue ossessioni
nonché la freddezza del senso3; non solo, ma anche i deliri ed i travestimenti della imperscrutabile Notte,
in questo lungo itinerario filosofico (e perciò scacchistico come tutto il cinema di Kubrick) che solca il
soggetto, attiva uno sfilacciamento che lo sconquassa e lo rigetta, attraverso un meccanismo di derive
interpretative, tra realtà oggettivata e realtà pensata-sognata. Ma anche un director’s cut che ripropone
il Mito, quel dramma di Narciso che consiste nell’impossibilità per il corpo di afferrare la propria
immagine e quindi, per traslazione, la grande ossessione di possedere un corpo, come ricorda Nicole
Kidman nell’ultimissima battuta del film: l’importante è fuck, quanto prima, sottolinea, tornare ossia al
registro del contatto, quello della mediazione materiale con il reale4.
Il suo cinema, in questo final act/cut altamente autoriflessivo, traduce il logo(s)rio di una semiosi
illimitata sui meccanismi che regolano la realtà ed il sogno in un tentativo estremo di esorcismo della
morte stessa; un a-cinema, direbbe Lyotard, collaborazione di eros e morte, ricerca dell’organizzazione
più complessa, più differenziata, e sua distruzione.
Lo aveva annunciato Pasolini, che scriveva:
“È dunque assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della
nostra vita […] è intraducibile…”5.
L’artificio supremo del divenire, la morte, la testa di Medusa che pietrifica il soggetto con il suo sguardo
e la forma retorica del linguaggio cinematografico ad essa associata, la soggettiva del cadavere, si
saldano in questo lavoro di traduzione/interpretazione e, come sostenuto da V. Zagarrio, la soggettiva
1I. Calvino, Se una notte di inverno un viaggiatore, Mondadori, Milano, 2000.
2 G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 40.
3 V. Zagarrio, A occhi chiusi e spalancati, Dino Audino, Roma, 2022, p. 25.
4Ibid. p.25.
5Ibid. p.12.
del cadavere si fa universale e totale6 ; la sacerdotessa-squillo, la maschera bianca sotto cui
probabilmente c’è l’attore/regista Sidney Pollack ed infine Bill regaleranno gli ultimi snervanti sguardi
in macchina che ci ha offerto questo grande regista, momenti di definitiva contemplazione dello sguardo
sulla morte; sarà lei l’ultima insondabile immagine che ci chiede di essere guardata. Come scrive Mieke
Bal nel testo Leggere l’arte?7 , La Testa di Medusa di Caravaggio ci fornisce, attraverso la
rappresentazione di questo mito, un importante esempio del ruolo che le immagini hanno all’interno dei
processi culturali: la dinamica dell’esser-guardati; questa dinamica è centrale in tutta la carriera del
regista, cosi come fu anche al centro degli interessi di studio di Jacques Lacan sulla riconsiderazione
dello sguardo; non a caso, lo studioso Paolo Russo in Kubrick e il postmoderno legge attraverso le
categorie lacaniane Eyes wide shut 8. Ma che cosa c’è da leggere in questa immagine? Quale è lo
straniamento che produce la soggettiva del cadavere totale di cui parla Zagarrio? Parafrasando la Bal, la
Medusa prodotta da Kubrick ed i ritratti che di essa hanno fatto di volta in volta i vari interpreti dei suoi
film, ci parla, come direbbe la teorica, visivamente, in funzione esortativa, chiamandoti a cercare con
lei la vera fonte del terrore. Kubrick sembra attratto, così come lo fu Lyotard, dal pensiero di Lacan in
relazione all’istanza dell’io, il quale, prima ancor che nella sua determinazione sociale, lo situava in una
linea di finzione: ne segue la sovrana analogia tra la funzione dello specchio e la funzione dello schermo
cinematografico. Il regista sembra proprio proporci, citando Lyotard, una riflessione sul cinema ed il
suo obbiettivo fondamentale:
“bisognerà […] domandarsi come e perché la parete speculare in generale, e quindi lo schermo cinematografico in particolare, possa diventare un luogo privilegiato di investimento libidico”9
.
Nel campo di questa joint attentional scene come la definirebbe il filosofo D. Hutto10 , si apre uno
scambio, un travelling di concetti, percetti ed affetti tra il soggetto Bill e lo spettatore; noi rincorriamo
Bill che rincorre Medusa e Medusa guarda altrove per farci guardare insieme a lei11.
.Per questo film possiamo ancora una volta parlare di overlooking, ma anche, a mio avviso, di
overreading e underreading; c’è un progetto sotterraneo che lo attraversa e che forse ne costituisce il
centro, una favoluccia, ed anch’essa parla di un soggetto, di una ermeneutica del soggetto e del volere
un corpo. Prima di lavorare ad Eyes wide shut, infatti, Kubrick si era interessato al racconto di Pinocchio
raccogliendo materiale per circa venti anni con l’intenzione di farne un film; gli scrittori che lavorarono
con lui nella raccolta delle idee e del materiale lo avevano sempre sentito chiamare dal regista, The
Pinocchio Project: storia di un bambino robot che vuole diventare umano per poter essere amato,
6Ibid. p.100.
7 Bal M., “Leggere l’arte?” in Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, di A. Pinotti e A. Somaini, Cortina
Raffaello, Milano, 2008, pp. 209-240.
8 V. Zagarrio, Per Kubrick, Dino Audino, Roma, 2020, pp. 76-87.
9 M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema digitale alla rivoluzione digitale, Cortina, Milano, 2020, p. 73.
10 D. Hutto, Beyond Physicalism, John Benjamins, Philadelphia/Amsterdam 2000, p. 96
11 Op. cit., qui p. 212.
similmente al nostro Bill Harford. Per entrambi potremmo usare il titolo, a robot child become human 12;
per entrambi, siamo certi, Kubrick avrebbe creato una rappresentazione parallela capace di annullare
ogni pretesa di soggettività13. Le testimonianze, raccolte un anno prima che Spielberg realizzasse il suo film A.I per omaggiare il regista scomparso ed il suo progetto rimasto nel cassetto, diventeranno un film-
documentario: The Pinocchio Project14; anche Marcello Walter Bruno, nel suo saggio sul maestro,sostiene che:
“Kubrick pensava ad una sorta di robot magico ante litteram, oggetto mobile-immobile scolpito nel legno. Un
alieno, un diverso. Una figura insieme familiare e perturbante. Come il monolito, parallelepipedo scolpito nella
pietra. Come la maschera di Bill dimenticata sul letto di Alice”15.
La morte del regista avvenuta prima della fine delle riprese del film interrompono questo sogno che
viene però messo in scena da uno dei suoi più devoti allievi, Steven Spielberg, appunto. A.I uscirà nelle
sale americane il 29 giugno 2001, fondendo, come scrive ancora Bruno, l’interrogazione sospesa nel
vuoto e destabilizzante di Kubrick con l’attenzione edipica e sentimentale tipica di Spielberg. Pinocchio
e Bill saldati in un itinerario parallelo, in un percorso edipico che si rivela catastrofico per entrambi. Il
Pinocchio parallelo che io credo sia rimasto all’interno di Eyes wide shut e con il quale tenterò un
confronto critico-poetico, è quello enigmatico e notturno dello scrittore Giorgio Manganelli. Il filone
neogotico del tutto attuale a cui appartiene Eyes wide shut e quello fantasmatico/virtuale che profetizza
Manganelli nel suo Pinocchio: un libro parallelo, ci affondano, noi spettatori digitali dell’universo dei
social-media, nella scomoda ed attualissima posizione di soggetti attivi e, come teorizzato da Zizek,
iper-passivi, nonché nell’anticipare quasi nozioni nate dal progresso tecnologico dell’industria cinema,
come mind-game films 16 e psycological puzzle films 17. Anche in questo sta la grande pre-visione lasciata,
come monito, da Stanley Kubrick nel suo ultimo film, la nuova sfida cognitiva che riguarda lo spettatore
e lo schermo.
Contro-atto I: femmine allucinatorie
Sarà utile partire dal progetto di Pinocchio non realizzato dal regista. Questo in breve il plot:
“Ambientato nel XXII secolo. Il cambiamento climatico causa l’innalzamento dei mari e il calo della popolazione.
I Mecha, robot umanoidi, svolgono la maggior parte dei lavori. David è un Mecha con l’aspetto di un bambino di
7 anni adottato da una coppia il cui figlio malato è stato congelato in attesa di una cura. David ama profondamente
sua madre Monica, ma all’inizio lei non riesce a ricambiarlo. Quando il figlio torna a casa, David deve andarsene.
12 Stanleyandus – The Pinocchio Project, di S. Landini, F. Greco, M. Di Flaiano (2022, Francia,
FOOOURDOUBLEFOUR prouction), film-documentario, min. 0:10.
13 V. Zagarrio, Per Kubrick, Dino Audino, Roma, 2020, p. 86.
14 Op. cit.
15 M. W. Bruno, Il cinema di Stanley Kubrick, Gremese, Roma, 2017, p. 170.
16 V. Zagarrio, Francis Ford Coppola. Un sogno lungo il cinema, ed. Rubbettino, 2020, cit. p.196.
17 Ibid. p. 196.
Ma Monica non vuole che sia distrutto e lascia che fugga nel bosco. David si ricorda della storia di Pinocchio che
gli leggeva sua madre e va con il suo orsacchiotto nel bosco a cercare la Fata Turchina che può trasformarlo in un
bambino vero. Durante il viaggio David incontra vari personaggi finché riconosce la Fata Turchina in una vecchia
statua in fondo al mare. David la prega di trasformarlo in un bambino vero. Il tempo passa. Giorni, anni…finché
l’oceano si congela. Secoli dopo, la razza umana si è estinta. I Mecha governano la terra e trovano David nel
ghiaccio. Basandosi sui suoi ricordi, racconta ai Mecha il loro passato. Per ringraziarlo gli offrono di poter stare
ancora con la madre. Per un ultimo giorno perfetto.”18.
La madre, la Fata. Ogni itinerario si configura in definitiva in questa ricerca di una potenza che accoglie,
protegge, ma anche domina, perché overlook per Kubrick è anche lo sguardo che domina sul residuo
visibile del reale, che tenta di amalgamare lo sguardo alla parete speculare. Cosicché, Alice, Marion,
Mandy e Domino, la piccola Helena e la figlia di Milich proprietario del Rainbow, sono tutte varianti
della Fata, la femmina che domina con la sua forza allucinatoria: io posso regalarti un corpo da avere.
Scrive Manganelli:
“non v’è dubbio che Pinocchio abbia incontrato una potenza incantata. Questa potenza è anche la prima figura
femminile non burattinesca che appaia lungo l’itinerario di Pinocchio. L’abbiamo detta lunare e mortuaria; ma il
suo pallore è albare; essa è insieme la signora morta della notte, e la signora del giorno che “balugina”; è iniziale
e conclusiva”19.
Queste figure femminili rappresentano per Bill non una contrapposizione alla realtà, quanto piuttosto
un piano dove le differenze non accettano di rappresentare un padrone e, quindi, non si subordinano;
per Baudrillard questo era il piano dei simulacri, il piano di ciò che ha sempre un carattere imminente e
sfugge alla verticalità istituita dai codici sociali. Queste figure non sono sogni, sono esseri seppur
spettrali, e con ciò mi riferisco al loro potere di agire come immagini primarie che attivano processi nel
soggetto interpellato; sono una pluralità sullo stesso piano, cosicché, come vedremo anche nel testo di
Manganelli, è la Fata che si traveste di volta in volta nelle figure femminili che incontra Pinocchio. Ed
è il sogno di Alice che attiva tutti i mascheramenti, di bianco e di nero, di lutto e di eros, che di volta in
volta le figure femminili offrono a Bill lungo il suo travelling che Kubrick traduce cinematograficamente
con la figura retorica del carrello a precedere o a seguire. Ma l’alternanza di queste figure vestite di
bianco o di nero e simmetricamente rispetto agli equilibri diegetici del film, rimandano ancora una volta
alla tematica dell’overlooking inteso come dominare: i giochi to play dal robot-child Bill/Pinocchio si
sommano, crescono e diventano spesso disobbedienza nei confronti di Alice e Ziegler, le due figure
perno della vicenda, ma soprattutto diventano fuga. Tutto in Bill ondeggia sotto la spinta delle occhiate
e delle parole che il femmineo gli rivolge: voglie, curiosità, domande e vagheggiamenti della coscienza.
Il soggetto Bill come il suo parallelo Pinocchio subiscono gli ingranaggi di una costruzione del prodotto
arte modellata per essere inceppata dall’interno; lo fa Manganelli e lo fa soprattutto Kubrick con
numerose dissonanze stilistiche ed insistenti ripetizioni verbali (es. “I have to be honest”), non ultime,
18 Op. cit., min. 0:35-2:12
19 G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 88.
le interruzioni brusche. In sintesi, la macchina rappresentativa entra in loop, si incanta. Ecco la potenza
Fatata: in un lavoro infinitesimale, a rallentare, ma pur sensibilmente presente di perdita di controllo,
il femmineo porta alla frattura la maschera del soggetto Bill/Pinocchio e Tom Cruise, l’interprete, su cui
Kubrick esercita il suo dominio, quello sì esercitato dall’esterno della scacchiera, perché Autore, porta
le sue espressioni facciali ad un livello quasi inerte, potremmo dire al minimo della tenuta.
E come Bill raggiungerà la casa di Domino per cercare rifugio dall’ossessione attivata dal sogno di
Alice, un corpo di conferma e fratellanza, visto che la scena si risolve con un bacio (una piccola
convergenza tattile, assai rara per il soggetto Bill nel film) ed un pagamento che assomiglia più ad un
gesto di amicizia (seppur doveroso per Bill), la casina che raggiungerà Pinocchio produrrà anch’essa
un legame di fraternità con la Fata, legame che Manganelli descrive con queste parole:
“La fraternità con la Fata è totalmente di destino, e non tanto di comune morte si tratterà, quanto di morte
alternativa, di un reciproco morirsi” 20.
Un reciproco morirsi: Domino. Kubrick le affida uno zoom non teatrale, pienamente cinematografico.
Lei, modella pronta a sacrificarsi per lui, è anche protagonista di una delle poche soggettive del film (le
altre sono per Alice in cucina nel corso della seconda giornata e una al misterioso individuo che segue
Bill nel Village poco prima di apprendere la notizia della morte di Mandy). Bill in quel momento guarda
sbigottito la modella pronta a sacrificarsi per lui ed offrirsi come Eklampon (Plotino), corpo che si
presenta e non rappresenta, feticcio che si espone al sacrificio per riportarlo al registro reale. È
nuovamente la Fata, signora di tutti questi travestimenti del femmineo, i quali sembrano nei momenti
decisivi come dei fermo-immagine per l’occhio di Bill, un rullo di negativi immobili 21 montati ad arte
dall’autore regista per lui. Leggiamo ancora nelle parole di Manganelli:
“l’apparizione effimera e centrale della Fata ci induce a chiedere chi mai sia, costei, in quell’isola in cui ha riparato;
dovunque sia, in questo libro senza Re, essa è la Regina, la Regina solitaria ed infeconda, la signora degli animali,
la vecchina, la donnina stanca sotto il peso delle brocche, la padrona della Lumaca, la Bambina morta; ma, anche,
la metafisica adescatrice di un fratellino, un figlio. Ogni volta che si approssima all’umano, essa è quasi qualcosa:
quasi una sorellina, quasi una mamma. Ma quello che regge e nasconde nelle sue mani mai descritte è la morte, il
Transito per sé e per gli altri. Come Regina è metamorfica ed occulta. Si nasconde, si trasforma, si umilia. Appare
e scompare, lunghi iati dividono i segmenti della sua esistenza”22.
Quindi, ancora una volta, nelle mani della potenza fatata Domino, mani mai descritte, è la morte,
aggiungo, la morte al lavoro: e quando Bill segue la morte al lavoro all’obitorio dove scopre essere il
cadavere di Mandy, ragazza che aveva salvato nel primo atto alla festa di Ziegler per un rischio overdose
da speedball e a cui aveva chiesto ironicamente “ce la fai ad aprire gli occhi e guardarmi (messaggio
non troppo subliminale di Kubrick a noi spettatori) e sembra quasi voler baciare il cadavere (presenza e
ambientazione ferale che chiudono sempre circolarmente in Kubrick un percorso cominciato al
20 Ibid. p.104.
21 J.P. Sartre, “Apologia per il cinema”, cit., p. 25.
22 Ibid. p.178.
capezzale di un altro cadavere, il padre di Marion), è perché non è più attuabile quella convergenza
tattile tra Soggetto e Oggetto suggerita precedentemente – e subito interrotta – con il bacio a Marion e
Domino 23.
Mandy si lega a Bill come nihil sta al Soggetto e non come eros sta a thanatos, e Kubrick sceglie un
plongée per creare un effetto simile alla scena allo specchio con Alice: un effetto di ripresa (P. Ricoeur)
estraniante, per far slittare lo spettatore verso l’apparato cinematografico e spingere a margine il
Soggetto/Bill dall’inquadratura, causarne ossia la quasi-assenza, per dissociarsi fatalmente da ciò che
vede. Scrive il filosofo Mauro Carbone:
“resta che, impedendo la possibilità di riconoscimento e d’identificazione nel rappresentato, la tendenziale
“mutazione del desiderio ravvisata ed insieme auspicata da Lyotard nella nostra epoca, anziché offrire una
realizzazione illusoria del desiderio stesso, tenderebbe a farne vedere l’illusorietà, mescolando perciò piacere e
delusione nel godimento (juissance) e comportando anche il mutato statuto della superficie – la parete speculare
– che mostra tale illusorietà: lo schermo”24
.
La Fata è, in tutti i sensi, anche in questo, come schermo, una madre allucinatoria 25
.
Contro-atto II: la grafia dei movimenti come immobilità e mobilità estreme.
Lo schermo è l’occhio. Kubrick con il suo ultimo director’s cut anticipa quello scarto inevitabile
che avviene nel cinema contemporaneo tra visione e conoscenza; una scissione, un paradosso, quello
per cui, come scrive Sandro Bernardi:
“Per capire, per interpretare, occorre rinunciare a vedere, e per vedere con la precisione che egli vorrebbe, occorrerinunciare a capire” 26.
Eppure, il povero Bill, ossessionato dal suo eccessivo desiderio di vedere (e quindi capire), per tutto il
film non riesce a non voler vedere. Il corpo di Bill cerca di costruire e ri-costruire incessantemente la
propria immagine, costruzione che il corpo può solo compiere con lo sguardo (almeno fino alla scena
finale con Alice, di cui parlerò in seguito); ogni suo gesto è un’allusione all’atto del vedere e vedersi e
su questo fondare il processo di percezione del corpo e di costruzione dell’identità. Ma cosa accade a
questo processo di costruzione dell’immagine del corpo nel momento in cui il virtuale (il sogno di Alice)
supera il reale ed altera profondamente lo statuto stesso del suo vedere? È a partire dal secondo atto che
si innesca il processo del suo annullamento o sprofondamento in quanto soggetto-vedente attraverso una
serie di episodi e di incontri reali (Marion, Domino, Nick Nightingale, Milich), ma dinamizzati dalla
23 V. Zagarrio, Per Kubrick, Dino Audino, Roma, 2020, p. 82.
24 M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema digitale alla rivoluzione digitale, Cortina, Milano, 2020, p. 78.
25 G. Manganelli, Pinocchio un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 200.
26 S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere, Firenze, 1994, p.199, in G. Canova, L’Alieno e
il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Firenze, 2022, cit. p. 58.
potenza del virtuale (la potenza fatata del sogno di Alice): un itinerario così simile a quello del povero
burattino di legno di Collodi e che culmina, infine, con il rituale dell’orgia. Poi, nel quarto, gemellare al
secondo, Bill si trascina in un percorso a rebours (restituisce il costume a Milich, cerca l’amico Nick,
Marion e la prostituta Domino) bussando alle loro porte: ma nessuno risponde. Una temporalità, quella di Eyes wide shut, del tutto particolare: non semplice circolarità ma, riprendendo il concetto di Merleau-
Ponty, precessione, caratterizzata ossia dal movimento di antecedenza dei termini implicati. Bill, come
Pinocchio, è in rapporto al reale, costantemente sottoposto per differenza alle coppie vedente-visibile,
silenzio-parola, io-altro e come gli ricorda Kubrick quando gli fa consegnare una lettera al cancello di
Somerson il giorno dopo la notte dell’orgia, “your inquires are useless”. L’itinerario di Bill assomiglia
allora perfettamente ai propositi di Manganelli, espressi in quinta di copertina del suo libro:
“Questo percorso, infatti, altro non è se non l’attraversamento dell’Erebo, del regno dei Morti, che ha il suo centro
nel cuore nero del libro, ma che si estende a tutta la topografia collodiana, dal bosco verde scuro in cui biancheggia la casa mortuaria della Fata alla campagna popolata di faine dove Pinocchio fa il cane da guardia. Libro notturno, di una notte definitiva (dove il giorno è solo “recitato” da sarcastici lampi temporaleschi), il Pinocchio di Manganelli non si chiude con la trasformazione edificante della vulgata, giacché il ragazzo in carne ed ossa non sostituisce il burattino e non ne è la resurrezione: dovrà invece conviverci, con quella “reliquia prodigiosa”, con quel legno che “continuerà a sfidarlo” 27 .
Entrambi dovranno convivere per tutto l’itinerario con una reliquia prodigiosa che continuerà a sfidarli,
la maschera ed il legno. Forse una questione di coscienza; in fondo anche The Pinocchio Project, come
dice lo scrittore Brian Aldiss, che collaborava con Kubrick nella ricerca, si riassume nella domanda “da
dove arriva la coscienza umana?”28. Non solo: nel documentario possiamo apprendere dalla voce dei
protagonisti che Kubrick sembrava ossessionato dal suo robot-child e si proponeva di sviluppare la trama
“non su come un androide evolve, né su come evolve il suo cervello, ma su cosa significa amare senza
un corpo”29. E non è forse questa anche la freccia diegetica che attraversa l’itinerario di Bill in Eyes wide shut? Aggiunge la scrittrice Sara Maitland:
“Kubrick era molto interessato a quelle emozioni delle persone che non avevano percezioni tattili. Perciò questo
piccolo bambino robot amava essere abbracciato ma non percepiva le carezze, perché la pelle non sentiva: era una faccenda cerebrale. Credo che Kubrick fosse confuso sull’importanza del corpo. Sui concetti di input e output” 30.
La confusione sulla questione del corpo, input e output; la questione celebrale di Bill ed Alice. E se la
soggettiva, che Gadamer riteneva forma simbolica della conoscenza, è così poco presente in questo film,
è perché il regista, sempre lucido e consapevole e così ancora contemporaneo nelle sue scelte, vuole
negare l’identificazione totale rilanciando invece i criteri della distanza (steady a precedere, steady che
accerchia) e della differenza (campo/controcampo). Un leggero spostamento sull’asse dello sguardo per
27 G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, quinta di copertina.
28 Op. cit. min. 25:25.
29 Op. cit. min. 25:54.
30 Op. cit. min. 26:42.
mantenere paradossale la relazione tra il soggetto e l’oggetto della visione, ma soprattutto per non
saturare il percorso che lega visione, emozione e conoscenza. La faccenda celebrale di Eyes wide shut
si sviluppa, proprio come sostiene Bruno per favorire i ritmi del pensiero, “con provocatoria linearità
drammaturgica ed esibito senso della lentezza” e ci offre il controcampo di un altro capolavoro di
Kubrick girato mentre viveva una vicenda personale difficile come la morte di entrambi i genitori
avvenuta a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: il film è Full metal jacket 31. In questa chiave, la
questione della famiglia (Bill è un medico come il padre e vivono con la famiglia a New York come
Kubrick nella sua infanzia), del matrimonio e della fedeltà centrali nel doppio sogno adattato da Kubrick
altro non sono che una calibratissima e lentissima (al millimetro) elaborazione del lutto, proprio come
sostenuto da Bruno32. Dall’altra, il doppio sogno è attivato proprio da quel dispositivo che recita l’occhio
è lo schermo: una sequenza di andirivieni estranianti dell’essere qui e altrove, un’ossessione ubiquitaria
di vedere tutto che coinvolge la totalità del linguaggio filmico, sia come enunciato (schermo/oggetto)
che, come enunciazione(spettatore/soggetto). Ma noi spettatori, precedendo quasi sempre Bill, come
detto, quasi mai in una vera soggettiva, siamo portati invece verso una leggera e calibrata dissociazione
rispetto ai suoi occhi e gli unici sguardi che sembrano garantirci ciò che viene esperito, saranno,
paradossalmente, quelli offerti dall’archi-specchio, ossia lo schermo. Incorporeo e senza poter vedere
tutto, il Soggetto diviene come il Pinocchio di Manganelli, un vagabondo inesperto ed astuto (o così
tale si crede) e come il burattino si candida ad essere nelle mani di Kubrick, una figura di cui nemmeno
lo spettatore che ha tentato quindi a più riprese l’aggancio prospettico, conosce veramente alcunché.
Scrive Manganelli:
“il Re ha scelto di non essere, farsi inattaccabile alle indagini filosofiche, alle pie aggressioni archeologiche, alle
minute pedagogie della storia: privo di azione, ingiudicabile ed ingiudicante, presente nell’unica forma che gli
consenta di essere dovunque, cioè l’assenza, egli si candida come irriducibile centro del c’era una volta; centro
privo di dove, totalmente clandestino: trafiggila l’armatura di nulla. A che fare domande a colui che non
risponde?”33.
L’armatura di nulla che avvolge Bill nel suo essere soggetto che non rinuncia a voler vedere, ci porta al
problema della performatività relazionale e percettiva della nostra corporeità: essere capaci realmente
di toccare un corpo. Kubrick anticipa anche questa questione della relazione con le immagini del cinema
contemporaneo, il paradosso scopico della virtualità: quanto più le nuove tecnologie potenziano le nostre
facoltà percettive in quanto soggetti scopici, tanto più il nostro corpo si sente inadeguato (come
Bill/Pinocchio) in quanto oggetto scopico, e fallisce nel tentativo di costruire la propria immagine
attraverso la performatività visiva. Scrive Pezzella:
31 Full metal jacket, di Stanley Kubrick (1987, U.S.A/U.K., Warner Bros./Stanley Kubrick Productions/Natant),
film.
32 M. W. Bruno, Il cinema di Stanley Kubrick, Gremese, Roma, 2017, p. 164.
33 G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, pp. 12-13.
“il corpo viene mobilitato allo spasimo per rivolgersi all’assoluta incorporeità. Sono coinvolto dall’immagine,
come il primitivo dalla potenza arcaica della natura: ma il mio oggetto è solo simulato. Come nell’esperienza
arcaica, entro in uno stato di fusione con gli altri membri del villaggio, che partecipano della mia stessa visione:
solo che questa non mi rivela gli spiriti della natura, ma i fantasmi dello spettacolo. Non mi identifico con
l’ebbrezza fisiologica di altri esseri umani, ma con il loro sguardo di spettatori. La mia corporeità è esaltata o
mobilitata, per poi sparire nel nulla”34.
Sicuramente possiamo rintracciare nell’ultimo capolavoro di Kubrick una critica ai fantasmi dello
spettacolo così come alla società capitalista, ma è soprattutto in quel senso di incorporeità e sparizione
nel nulla che trova la sua maggiore vocazione di lettura. Come per Pinocchio, valgono per il personaggio
di Bill, le parole di Manganelli:
“se poi, per scrupolo, vorremmo impastare assieme queste diverse ipotesi – che il re sia nulla, clandestino e
sminuzzatamente ubiquitario – ne verrà che la favola sia essa stessa invisibile, regale, dovunque nascosta, e
composta di quella imperitura e inattaccabile materia che noi diciamo nulla”35.
Visualizziamo apertamente la contraddizione di una insopprimibile ambivalenza del corpo e il
personaggio di Alice ci aiuterà nel compito di visualizzarla, ma ne parlerò poi, cioè, come scrive ancora
Pezzella: “la sua inevitabile residualità assieme alla sua tendenziale sparizione” 36. In questa arcaica
mescolanza di felicità e di inattitudine i corpi in Eyes wide shut falliscono nel toccarsi realmente.
Mancano di uno sguardo tattile, un modo di approcciare alle immagini prodotte dal linguaggio
cinematografico e dall’universo dei social-media, che si offrono ormai in un flusso incontenibile nel
nostro universo digitale contemporaneo, cui noi stessi non abbiamo ancora dato pienamente visione,
emozione, conoscenza. L’ultimo messaggio sovranamente visuale e sovranamente ancorato al
linguaggio del maestro Stanley Kubrick: su tutto poter vedere, su tutto poter dire ma l’occhio è lo
schermo e la dissolvenza è a nero. Il Soggetto, l’itinerario, invano. Eyes wide shut, come la storia
d’elaborazione di un lutto, così come la storia degli adroidi di The Pinocchio Project che vogliono sapere
dei propri avi salvando il piccolo robot-child dall’acqua solidificata che lo ha preservato per millenni;
così come, sostiene la Maitland, lo stesso “Stanley che voleva comprendere il proprio posto nella sua
storia familiare”37, anche solo attraverso una infinitesimale e calibratissima mobile ed immobile
occhiata (la stessa forse che basta ad Alice da parte del marinaio e lei non riesce più a muoversi?)
attraverso la grafia dei movimenti di una schermata nera.
34 G. Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Firenze, 2022,
p. 181.
35 G. Manganelli, Pinocchio un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 13.
36 G. Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Firenze, 2022,
p.181.
37 Op. cit. min. 37:42.
Qualcosa si realizza nel corpo, qualcosa preme nel buio ansimante; che significa mi trovo?
Ho una chiara coscienza del mio essere qui? Il Reale è ostinatamente all’interno.
E. Canetti, La tortura delle mosche 38
Contro-atto III: una macchina che sembra un bambino ma non lo è.
Nuova epistemologia del corpo. Kubrick esaspera la sua visione scacchistica dell’immagine e
del linguaggio cinematografico e la mette in scena nel terzo atto dove diviene emblematica la
perlustrazione degli spazi interni operata dallo sguardo di Bill e tradotta con ininterrotti movimenti di
macchina nella villa Somerson durante il rituale dell’orgia e completata, infine, dal sogno di Alice; il
doppio asse corpo infans e corpo sociale a fare da perno attorno al quale ruota l’evoluzione decisiva
dell’evoluzione/degradazione del personaggio. Il sogno di Alice che attiverà il processo all’indietro del
marito nel tentativo di recuperare il senso di ciò che ha esperito passivamente il giorno prima, recita:
“la città era deserta e loro erano nudi. Lui è andato a cercare i vestiti. Lei a quel punto si sente felice. In un bosco
spunta il marinaio che “la fissa e ride” – ride di lei- lei sogna l’orgia e rideva e rideva più forte che poteva, ecco
allora arriva il momento in cui lui la sveglia”.
Il regista ci sottopone ad una densità emotiva profonda creando un immaginario ambiguo e minaccioso
che disegna sullo schermo apparizioni di segni ibridi con tutte le “perversioni dell’agon”, degenerazione
dell’istinto di competizione: l’ambizione forsennata, l’ossessione del successo, il rifiuto di arbitri ed
arbitraggi, l’astuzia, l’inganno, la violenza, la volontà di potenza 39: ma soprattutto la visualizzazione del
corpo, che sia esso mascherato o nudo, si accompagna parassitariamente alla centrale tematica della sua
inadeguatezza. Kubrick ha sempre mostrato un atteggiamento illuminista ma pessimista rispetto alla
capacità umana di calcolare: proviamo ad accedere al punto chiave di questa visione profetica del
regista. Dobbiamo richiamare alla memoria ciò che negli anni Sessanta G. Anders chiamava la
“vergogna prometeica”, ossia quel sentimento che noi essere umani proviamo di fronte alle macchine
che abbiamo prodotto; e la macchina che viene qui messa in scena è perfettamente espressa nelle parole
di Derrida:
“nel momento in cui vi è calcolo, una calcolabilità ed una ripetizione, in quel momento vi è una macchina”. Per
estensione macchina sta per logos o per razionalità discorsiva: “la macchina esiste dappertutto, e in particolare
all’interno del linguaggio” 40.
Il grande oppressore di Bill, la macchina, la ripetizione di troppo, quello che causa la sua dissociazione
tra dimensione reale e sognata, tra individuo e società e soprattutto che lo vincola simbolicamente al
rituale sociale dell’orgia, circolo chiuso (come suggeriscono anche le circonvoluzioni della mdp),
38 E. Canetti, La tortura delle mosche, Adelphi, Milano, 2008.
39 G. Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Firenze, 2022,
p.182.
40 J. Derrida, Nietzsche e la macchina, Mimesis, Milano, 2010, p. 7.
proprio il linguaggio. Una volta entrato in questa scena sociale dominata dalla logica del travestimento
e della rappresentazione, le sue espressioni facciali vengono serializzate in pose ricorrenti, formalmente
corrette, ma soggette, al tempo stesso, di improvvisi svuotamenti 41 di fronte alle geometrie finzionali e
senza riflessione prodotte da queste figure che si muovono in cerchio in uno spazio che non è
propriamente di nessuno; eseguendo riti e strategie anonime (Derrida) prefigurano il piano di
composizione dell’immagine attraverso una carnalità metonimica. In The Pinocchio Project, Brian
Aldiss racconta di aver suscitato l’interesse di Kubrick con un suo racconto, Super-toys last all
summerlong; lo aveva attirato emotivamente ed intellettualmente, una storia di claustrofobia. Doveva
essere un intenso dramma psicologico, di un piccolo triste androide, cui veniva detto senza pietà che era
solo una macchina ed in un momento della storia il piccolo androide entra in un magazzino e vede
centinaia di altri David come lui. È un trauma terribile, lo stesso che Kubrick ripropone a Somerson, al
dottor Harford, lo stesso trauma che Manganelli pone al centro della sua lettura parallela di Pinocchio,
dove leggiamo:
“Pinocchio non ha alleati: tutti lo sovrastano. A questo punto possiamo avanzare una prima interpretazione:
l’itinerario di Pinocchio è sostanzialmente fantasmatico; dato il discorso “Pinocchio”, Geppetto e gli altri sono
reali, ma lo sono in quel discorso. Il minuscolo burattino vegetale sa tutto ed è totalmente inetto, è corrotto ed
esaltato dal suo sogno di trasmutazione umana, inevitabilmente transfuga dalla sua condizione iniziale, e tuttavia
riluttante al proprio itinerario, fuggiasco e sottoposto ad una impersonale coazione; totalmente sproporzionato al
mondo in cui è penetrato è, inconsapevolmente, il centro, il linguaggio, del mondo che deve percorrere; ma lo è in
quanto “pezzo di legno da catasta” […] egli è l’evocatore di una serie di nemici (tutti dei divieti in forma umana
o animale quando li incontra)…la loro immedicabile ambiguità, nascono da lui, lungo l’itinerario, sono l’itinerario;
sono, tutti, demoni ed angeli; sono incubi e sogni consolatori e profetici. Quanto più sono “alti”, e dunque
sproporzionati e potenti, tanto più sono ambigui: non solo seviziatori e protettori, anche tiranni e schiavi (logica
della merce, vedi Bruno analisi); temibili fantasmi. Ne viene che Pinocchio è “un pezzo di legno da catasta”
appunto per la sua totale vocazione alla sofferenza; è un “burattino”, qualcosa che ignora sé stesso, un ubbidiente
e un gioco (play); è ribellione e devozione; all’inizio si è arreso, ma la sua resa è una sfida” 42.
Bill, entrato all’interno di un linguaggio di cui è suo malgrado centro, per un gioco paradossale di
ubbidienza ed inadeguata disubbidienza è, non differentemente dal burattino, pezzo di legno da casta.
Corpo inadeguato, forse in esubero all’interno di quel rituale della Rappresentazione dell’orgia o forse,
addirittura in esubero alla macchina come linguaggio, archi-tecnica di ogni produzione comunicativa o
informatica; e per non essere estromesso dalla cerchia di comando del flusso produttivo (logica del
capitale), di fronte alla sciarada del corpo metonimico, il corpo del soggetto si fa quasi-assenza,
soprattutto nel peso “carnale della corporeità, non nelle facoltà percettive del corpo stesso” 43. Cerca un
senso, ma gli è solo concesso di passarci dentro; perché in fondo quello che richiede la macchina è
41 E. Carocci, Stanley Kubrick, Marsilio, Venezia, 2021, p. 142.
42 G. Manganelli, Pinocchio un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 52.
43 G. Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Firenze, 2022,
p. 179.
percorrere itinerari previsti o meglio, eseguire un programma. Come scrive Raphael nel suo testo sul
lavoro di costruzione della sceneggiatura di Eyes wide shut:
“Talvolta il gioco diventa così estremo… A mio parere una cosa del genere per noi potrebbe funzionare alla
meraviglia. Le spiegazioni necessarie potrebbero essere fornite da Nightingale prima e dopo gli eventi. Il vantaggio
per noi è che si tratterebbe di un gioco (e quindi Bill potrebbe dapprima partecipare e poi ritirarsi senza sentirsi
troppo vigliacco) e nello stesso tempo di una realtà alterata in cui la morte della “contessa” potrebbe essere la
conseguenza di una interpretazione troppo estrema. [..] Bill avrà la sensazione (che ciascuno di noi ha provato in
sogno) che tutti gli altri siano già ben ambientati e pronti a giocare mentre lui non sa cosa dire o cosa fare ma cerca lo stesso di apparire calmo e di non ammettere che avrebbe bisogno di istruzioni. Mi creda, maestro, sarebbe il centro vibrante della storia”44.
Il bisogno di semplici istruzioni. Lo affermava anche B. Aldiss, “just that sense of balance”, per Kubrick
sarebbe bastato: camminare, voltarsi, sedersi. E aggiunge:
“ma poi ha pensato che sarebbe stato più reale farsi costruire un bambino androide (invece di uno reale) e sarebbe stata la prima volta. Ma quale sarebbe stato il problema: farlo camminare senza fargli perdere l’equilibrio, quel senso dell’equilibrio che gli uomini imparano da bambini” 45.
Ai tempi di The Pinocchio Project Kubrick immaginava cosa sarebbe potuto accadere agli edifici del
potere con i loro loschi traffici di una New York “persa nel mare” 46 dopo il cambiamento climatico e
durante l’itinerario di un bambino in cerca della sua verità e della sua umanità; era sicuramente l’aspetto
visivo centrale del film che avrebbe realizzato ed in qualche modo, a partire dall’assonanza del nome,
Somerson, la villa dell’orgia riecheggia la centralità di quella visione. In questa zona di
misconoscimento e di incomprensione, dobbiamo ora introdurre la figura del sorvegliante della
macchina di finzione (nel senso latino di fingere come ingannare e manipolare): il ricco e potente Ziegler,
probabile padrone della New York aristocratica di Eyes wide shut, in cui Kubrick, come sostiene Bruno,
attualizza e rende contemporanea la veemenza allucinatoria di un mondo in cui il vedere è il primo
elemento del conoscere 47.
Ma c’è qualcosa di più; infatti, sin dai tempi del progetto Pinocchio, Kubrick
e i suoi collaboratori avevano sentito l’esigenza di inserire nella storia un personaggio che aiutasse in
qualche modo le intelligenze artificiali, che nei progetti di Kubrick non sarebbero state per niente
intelligenti (David ed il suo orsacchiotto), a superare una strutturale incapacità. La soluzione a cui
pensarono era un tipo abile, capace, un GI Gigolò JOE, un robot sessuale, idea che sembra caratterizzare
il personaggio interpretato dal regista e attore Sidney Pollack che mostra a più riprese un’intima
vocazione, apparentemente pedagogica, nei confronti di Bill; è lui che sembra ogni volta doverlo istruire
sulle regole, soprattutto su quella regola fondamentale che disarticola costitutivamente tutto il film
inserendolo in una logica del forse a cui, il povero Bill, ossessivamente cerca di replicare con il suo
44 F. Raphael, Eyes wide open, Einaudi, Torino, 1999, p. 101.
45 Op. cit. min. 27:15.
46 Op. cit. min. 34.23.
47 M. W. Bruno, Il cinema di Stanley Kubrick, Gremese, Roma, 2017, p. 165.
motto, I have to be completely frank. Un’innocente opposizione da parte del soggetto che non scalfisce
la regola d’oro che accumuna il personaggio di Ziegler a quello di mastro Ciliegia nel testo di
Manganelli, dove leggiamo:
“Ma la regola fondamentale resta quella di “non vedere” quel che accade […] mastro Ciliegia è dunque questo
umile, insostituibile attrezzo della favola; e come tale è giusto che egli sia alla periferia del “c’era una volta”. È il
destinatario sbagliato, il cui compito è rendere il pezzo di legno consapevole del suo destino”48.
Consapevole delle regole del loro gioco; perché invece, via via che gli itinerari di Bill, come di
Pinocchio, avanzano nei loro racconti paralleli, sembra quasi che il regista voglia dirci, anticipando
ancora una volta una tematica contemporanea, che il solo modo di far fronte al dominio tecnologico che
offre al soggetto-spettatore iper-comunicazione, iper-relazione ed iper-percezione, sia per il suo corpo
di fare a meno di sé 49. Bill diviene, anche per noi spettatori che siamo quasi allineati al suo sguardo per
tutto il film, inaccessibile all’esperienza, un estraneo, un armadio chiuso, un robot che sembra un
bambino ma non lo è, che sembra avere un corpo umano ma non lo possiede; e l’attenzione che gli
rivolge Ziegler/mastro Ciliegia non può che essere, a questo punto, che sottoposta ad una tensione
dominata dal sospetto. Scrive Manganelli:
“Incidentalmente, quell’armadio “sempre chiuso” mi inquieta. Un armadio chiuso è inutile, e mastro ciliegia non
è uomo da apprezzare oggetti ingombranti ed inutili. In quell’armadio deserto e compatto si nasconde la follia di
mastro ciliegia? O è “la grande inutilità” che regge il mondo del reale? Vi è un mistero anche in mastro ciliegia,
ma è un mistero svuotato, inutile e legnoso; e dentro non c’è nessuno” 50.
Eyes wide shut è l’atto di chiusura sul tema del moderno, film a-moderno, cinema nell’accezione di a-
cinema, che in parte rilancia uno dei quesiti proposti da Canova nel suo testo L’Alieno e il pipistrello, ossia, parafrasando, che dietro la volontà di non voler vedere o l’incapacità di vedere che segnano il
fallimento dell’onnipotenza dello sguardo, ci sia una negazione ontologica del cinema stesso?51
Nell’ultimo atto, Ziegler/Mastro Ciliegia (che propone gli stessi rapporti del primo rispetto alle figure
di Ziegler e Alice) fornirà la spiegazione insoluta alla sciarada, frivola e gratuita caratterizzata dal
sintomo di una superficie puramente decorativa, imbastita ai danni del povero dottor Bill Harford:
l’azzardo porta alla follia e nella sua meticolosa, metodica ed affannata ricerca di verifiche per non
accettare di essere sorpreso dal caso, Bill/Pinocchio ha pagato il peso di un robot-child minacciato da
una minaccia inesistente che lo ha situato al centro di un costante regime di sorveglianza della macchina.
Una circostanza filosofica estrema, piuttosto che il registro di una narrazione diegetica lineare rispetto
a ciò che definiamo il Reale; Ziegler, ministro, sorvegliante e carnefice di figure troppo somiglianti
48G. Manganelli, Pinocchio un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 15.
49 G. Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Firenze, 2022,
p.180.
50 G. Manganelli, Pinocchio un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 16.
51 G. Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Firenze, 2022,
p. 62.
(come gli androidi che scopre il piccolo David) che sono come dei fermo-immagine in grado, in un film,
Eyes wide shut, di impedire alle pulsioni del soggetto di trovare un qualsiasi oggetto (da amare?) dove
riunirsi poiché alla fine, il petardo senza messaggio 52 a rallentatore che Kubrick attiva nel suo ultimo
director’s cut, passa tutto per la linea parallela tra lo specchio e l’occhio come schermo. A Bill non resta
che far fluttuare o raggelare (qui di nuovo un parallelo interessante con il mondo sommerso di The
Pinocchio Project) il corpo come un’alga che non si muove 53. Scrive Manganelli:
“Vorrei accennare a punti che mi inquietano profondamente: il primo è quell’armadio che stava sempre chiuso, e
che evidentemente mastro Ciliegia scruta – per vedere che? – in occasione di sospetti prodigi; questo armadio può perseguitare una vita: è, appunto, quell’oggetto, mortificato e totalmente enigmatico, nel quale si sospetta un
ingegnoso travestimento. […] Altro punto: il falegname sospetta che il legno abbia “imparato” a piangere “come
un bambino”. […] conosco troppe persone prigioniere di un come. Quel “come” è un drappo nero su un tamburo
funebre. Infine, un poco, solo un poco sul capzioso. Quando il “maestro” si mette in ascolto per cogliere quella
vocina: “aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla”. Molto laconico, vero? Soltanto
laconico? E se fosse un travestimento? In tal caso per tre volte il “maestro” avrebbe ascoltato il nulla: senza
decifrarlo, naturalmente. E se ne rallegra e rassicura, giacché egli è di quegli uomini che vengono rassicurati dal
nulla”54.
Il legno ha imparato a piangere come un bambino; qualcosa preme nel buio ansimante e qualcosa prova
a realizzarsi nel suo corpo; Ziegler/Mastro Ciliegia lo interroga senza decifrarlo. Bill rimarrà soltanto
laconico come una macchina che sembra un bambino ma non lo è.
52 F. Raphael, Eyes wide open, Einaudi, Torino, 1999, p. 109.
53 M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema digitale alla rivoluzione digitale, Cortina, Milano, 2020, p. 80.
54 G. Manganelli, Pinocchio un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 20-21.
Una terra di fate per te e per me.
Una magica schiuma, un mare periglioso.
La nostra finestra di fronte alla pericolosa spuma.
La nostra finestra aperta di fronte a desolati mari.
E la spuma perlata d’una terra fatata…
Rä di Martino, Carmelo Bene. Là dove muore, canta55, script dal
video.
L’epilogo: freeeze and fuck.
Alice…la Statua…la Fata…Figure destinate a comporre le configurazioni impossibili proposte
nei suoi progetti paralleli da Stanley Kubrick: Eyes wide shut come The Pinocchio Project. Ma sarà lo
stesso in A.I di Spielberg. Ecco allora che le tre figure, sia quando si offrono nella regale e fatata
singolarità della loro unica presenza fisica che quando si mostrano virtualmente come doppi troppo
somiglianti, vanno a costruire una geometria della ritualità a tre dimensioni, una piccola e misteriosa
figura, come il parallelepipedo di 2001 Odissea nello spazio, un cubo che riluce nelle parole così come
negli itinerari diegetici che si intrecciano virtualmente in tutti questi progetti; il segreto di una vigilanza
estetica forsennata (potrebbe essere un altro significato di overlook) che regala allo spettatore-soggetto
l’occasione di partecipare, almeno di sbieco (pensiamo al dispositivo Bill/spettatore con la steady a
precedere, alle esigue vere soggettive del film, etc.), allo splendore neutro, come direbbe Deleuze, di un
evento che forse ha come unico e vero protagonista, nelle intenzioni del regista, lo schermo. Una
configurazione questa, Alice-Statua-Fata, che si è impressa nella mente di Kubrick per molto tempo;
una fissazione, un incantesimo che lo ha stregato e da cui non è più stato possibile distoglierlo, come
confermano le parole della Maitland: “Stanley non voleva rinunciare alla fata” 56. Ecco allora che il
personaggio di Alice (ma non meno il corpo di Nicole Kidman in carne e ossa) balugina come la statua
della Fata di The Pinocchio project e di A.I di Spielberg e lo fa sin dalla prima immagine erotizzata del
film in cui Kubrick la fa baluginare, qui senza dubbio l’attrice Nicole Kidman (il suo corpo statuario) e
non la protagonista Alice, giusto il tempo di un occhiata, tra il credit che annuncia il suo nome
(enunciatore) e quello che recita il titolo del film (enunciato). Un’immagine che schiva il tempo
diegetico del film, quasi un freeze-frame che avrà nel finalissimo il suo doppio e glaciale epilogo
affidato alla parola-evento dell’ultima battuta: “fuck”. L’ellissi miniaturizzata che accerchia Eyes wide
shut, il cubo, altrettanto miniaturizzato, nascosto nella struttura profonda di questi film, come la statua
della Fata di A.I, “into the deep”, come recita il titolo di un capitolo del documentario The Pinocchio
Project. E Manganelli? Nel suo Pinocchio, ironicamente e fantasmaticamente, subisce l’attrazione della
stessa geometria figurale. Leggiamo nel testo:
“Si immagini che il libro di cui si vuol disporre la struttura parallela sia non già simile a lamina inscritta
(miniaturizzata), ma piuttosto ad un cubo: ora, se il libro è cubico, e dunque a tre dimensioni, esso è percorribile.
55 Rä di Martino, Carmelo Bene. Là dove muore, canta, Humbolt Books, Milano, 2023.
56 Op. cit. min. 42:06.
non solo secondo il sentiero delle parole sulla pagina, coatta e grammaticalmente garantito, ma secondo altri
itinerari […] non solo: ma le parole così usate saranno simili ad indizi – tra delittuoso e criptico – che il libro si è
lasciato alle spalle, o che si trovano sparsi nel suo alloggio cubico, ospizio di tracce, annotazioni, parole trovate,
schegge di parole, silenzi.
No: direi che Pinocchio è altamente indiziario, che è un libro di tracce, orme, burle, fughe, che ad ogni parola
colloca un capolinea. Il parallelista vive in esso la dissoluzione del cubo, alloggia tra innumerevoli prove, non sa
di che. Questo sconcerto è essenziale. Esso gli consente di esercitare la regola aurea del parallelista, che è: “tutto
arbitrario, tutto documentato” 57.
E il parallelista Bill-spettatore-Pinocchio vivrà, attivato dal suo piccolo alloggio cubico e fascinato dalle
sue pareti dove “baluginano” immagini-parole-simulacro, Alice-Kidman-Statua-Fata, la propria
dissoluzione dello sguardo; tracce, annotazioni, parole trovate, schegge di parole, silenzi (Rainbow,
Fidelio, How do I look, etc.). Innumerevoli prove, ma non sa di che. Perché le immagini femminee
(metafora delle immagini audiovisive in generale) qui rappresentano la sintesi disgiuntiva delle parole
e delle immagini stesse, il loro stare insieme, ed Eyes wide shut è un film completamente attraversato
da questa tensione. Come sostiene Deleuze allora, le immagini:
“si organizzano per proprio conto” mentre la parola non le spiega, ma come atto essa stessa è “posta di sbieco”
sulle immagini”58.
La visione o partecipazione, ma potrei dire anche l’atto di lettura, suggeriti sin da quella prima immagine
della Kidman tra i credits da parte di Kubrick, potrà non essere che posta di sbieco; di fronte alle
innumerevoli prove non sappiamo di che, solo il finalissimo ci darà l’abbozzo di una risposta: “fuck”,
richiamo ad un sentire, improvvisamente, ossia solo per un istante, come il quasi freeze-frame della
Kidman concesso ai nostri occhi, solo per un istante. Qualcosa ci fa segno in questa ellissi creata da
Kubrick oltre il tempo diegetico del film, versione-trailer miniaturizzata, regalmente autosufficiente a
fermare l’ordine del prima e del poi con la sua sinistra interruzione e produrre nel soggetto, infine, la
fatale domanda Proustiana:
“coglimi al volo se ne sei capace, e stùdiati di sciogliere l’enigma di felicità che ti propongo”59.
Ma noi sappiamo da Lacan, e Kubrick sembra proprio ricordarselo, del chiasmo occhio-schermo, lo
ricordiamo: l’occhio è già nelle cose, non serve il soggetto che le guarda, l’occhio non è nemmeno la
macchina da presa, ma lo schermo; ecco allora che quel primo freeze-frame rileva un’altra brillante
anticipazione della cultura delle immagini contemporanea da parte del regista di Eyes wide shut:
“Perché non meno legittimamente di quanto si fa trattando di “esperienza estetica” ed “esperienza filmica”, si può
ben parlare di “esperienza schermica”, nel cui orizzonte – e solo all’interno di esso – possiamo sostenere che lo
57 G. Manganelli, Pinocchio un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, p. 7-8.
58 J. Deleuze, L’immagine-tempo, op. cit. in F. Carmagnola, Deleuze, il non-tutto in immagine, Mimesis, Milano,
2022, p. 41.
59 M. Proust, Il tempo ritrovato, op. cit ibid. p. 60.
schermo stesso venga a configurarsi appunto quale “quasi-oggetto”, in quanto tale dotato di un proprio punto di
vista non solo percettivo ma anche affettivo”60.
E il gioco (play) che si attiva tra il corpo statuario dell’attrice Kidman e lo schermo in quel primo istante
rilancia, come avviene nel Pinocchio di Manganelli, un modo di far esperienza delle immagini altamente
indiziario: tracce, orme, burle, fughe, che ad ogni parola colloca un capolinea, un rimpicciolimento e
quindi un’immersione totalizzante, come quella di David in The Pinocchio Project e in A.I, non così
lontana da quella di cui fa esperienza lo spettatore digitale con i suoi devices contemporanei. Il primo
messaggio del film, quasi-fuori dal film, che Kubrick fa scivolare in una delle tante trame parallele e
doppie che lo attraversano ed incarnano l’ideologia contemporanea della visibilità “assoluta”: lo
schermo come display; tentativo però che sappiamo, attraverso l’itinerario di Bill e quello di David, che
letteralmente vivrà un freeze-frame nel profondo del mare di fronte alla “statuaria” Fata, in fissità dello
sguardo assoluto e per duemila anni prima di essere scongelato da quel overlook fatato, destinato a
fallire. Signori e signore, ecco a voi Eyes wide shut: prego, play and display! La statua-Kidman e la
statua-Fata sono Veneri aggressive che, come un display, filtrano per tagliare, schermare o rendere
inesistente tutto ciò che è fuori dai loro confini, relegando il rapporto con lo spettatore non solo nella posizione del voyeur col suo feticcio (vivere sullo schermo), quanto, piuttosto, in quella di soggetto iper-
passivo che desidera essere sulla sua superficie almeno per un istante. Figure-display che né mostranoné nascondono, nell’accezione di sguardo che apparteneva al mito della caverna di Platone; esse invece
unicamente, e come un moderno display, fanno funzionare la dinamica del vedere e dell’esser visti come
esibizione, esposizione, ostentazione. Quindi il regista, attraverso l’attrice-statua Kidman, offre tra i
credits d’apertura e per un istante, una fondamentale anticipazione del film:
“L’attrice (tacitamente retribuita in pellicce e belle vesti dal suo autore) capricciosamente a intervalli lampeggianti
di gratuito, disattende la continuità. Sono in due e par che facciano per quattro. Questo entrare e uscire
d’improvviso dai propri ruoli, e cioè dalla rappresentazione ortodossa e sempre squallida, costituisce il fascino
dell’argomento, dell’intreccio, non per questo complicando la comprensione dello spettatore, ma al contrario,
esaltandola, poiché qui l’argomento per eccellenza è appunto: il Fascino”61.
Lo spettatore…la Statua…l’Attrice…la Fata…la Discontinuità: voler essere sulla superficie per un
istante. Il Fascino della visione assoluta, del contatto assoluto, con cui Kubrick ha cercato di stregarci
per un istante. Ma all’interno dell’alloggio cubico ci sono altre facce ed altre operazioni doppie delle
Figure-simulacro che attendono Bill/Pinocchio nell’itinerario delle loro avventure filmiche parallele:
Alice (il personaggio e non l’attrice tra i credits), moglie sì, ma forse più ancora madre e la Fata, nelle
vesti della Madre per David in The Pinocchio Project. Ad esse spetta il compito che, nelle parole di
Derrida, recita:
60 M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema digitale alla rivoluzione digitale, Cortina, Milano, 2020, cit. p.
124.
61 Rä di Martino, Carmelo Bene. Là dove muore, canta, Humbolt Books, Milano, 2023, pp. 5-6.
“Il problema di una operazione spronante più potente di ogni contenuto, di ogni tesi, di ogni senso”62.
Alice lo farà in due momenti precisi del film: il primo, nel quale si confronta con Bill in camera da letto
dopo aver fumato marijuana raccontandogli della fantasia provata nei confronti di un marinaio durante
una loro vacanza, in cui a lei, ironicamente, Kubrick fa dire che le era bastata “una sola occhiata” per
non riuscire più a muovere un dito del suo corpo; mentre il secondo, che divide simmetricamente il film
in due parti speculari e complementari, in cui racconta il sogno di essersi trovata in un’orgia. In entrambe
le scene, Bill sembra assistere straniato di fronte a ciò che gli accade, incredulo, senza appartenere ai
movimenti a scatto, nervosi e merlettati, soprattutto nella prima occasione di dialogo in
campo/controcampo, di Alice in intimo bianco che, come un burattino, agita i suoi arti quasi legnosi per
finire poi sul pavimento ed iniziare lo sprone racconto; nel secondo, sarà ancora più raggelato da quel
sogno che lui da spettatore aveva esperito poco prima alla villa Somerson. Momenti di crudeltà per il
povero Bill/Pinocchio come poi sarà anche per David di fronte al primo incontro con la Madre Monica
prima che lei decida di attivarlo e riconoscerlo come figlio, quasi in carne e ossa, recitando le parole
d’ordine per l’imprinting. Su questo Kubrick aveva le idee molto chiare come ci ricorda la Maitland:
“ho scritto un po’ di scene in cui la madre prova una certa repulsione nel contatto fisico con il bambino” 63.
Vale per David come per Bill; Alice non sarà diversa da Monica, la stessa attività spronante nel senso
proposto da Derrida, perché Kubrick amava invertire la norma. Il sogno di Alice dà inizio all’itinerario
di Bill così come la madre Monica, che non avrebbe ricambiato l’amore per quel robot-child progettato
per sognare ed essere amato, dà inizio al percorso di David. Entrambe, capaci di una impersonale agency
e di essere per lo sguardo stralunato (uno dei significati di overlook) dei loro interlocutori, figure che
Merleau-Ponty avrebbe definito di una visibilità imminente 64. Bill e David invece, saranno accumunati
dalla postura dell’attesa, alghe che fluttuano tra gli oggetti, immobili di fronte alle dinamiche legnose e
nevrotiche delle Figure materne che li sovrastano con le loro parole-comportamenti-enigmi volute dal
regista per questi momenti altamente attivanti l’intero itinerario-processo di costruzione del soggetto;
come un alga, anche David “un giocattolo sensoriale con circuiti comportamentali intelligenti che usa
una tecnologia neurone sequenziale che è vecchia quanto me”65, quando nel fondo del mare, che ha sommerso New York, non si muoverà di fronte alla statua per duemila anni.
“Eppure, mi domando, nella veglia assonnata della mia bara-letto: perché non morto? Perché non ancora? Chi mai
solletica questa mia indifferenza? Quali voci (di donna?) tesse il vento tutt’intorno al maniero – figura della mia
estetica derisione quasi assoluta? Chi mi pensa? Chi mai inquieta i non-morti? E perché questi brividi di freddo?
[…] Questa inquietudine dei non-morti dentro la stanza del mio cervello inebetito, chi mi dice di muovermi,
62 J. Derrida, Sproni. Gli stili di Nietzsche, Mimesis, Milano, 2010, pp. 97-98.
63 Op. cit. min. 28:14.
64 M. Carbone, Filosofia-schermi. Dal cinema digitale alla rivoluzione digitale, Cortina, Milano, 2020, p. 124.
65 A.I. Artificial Intelligence, di Steven Spielberg (2001, U.S.A, Warner Bros. Pictures, DreamWorks Pictures,
Amblin Entertainment, Stanley Kubrick Productions), min 4.11.
sonnambulo, chi mi dice di alzarmi dal mio letto-bara? M’alzo nella mia stanza sconfinata di terra umana. Ho
indosso l’abito nero, elegante, dell’occasione definitiva. Chi mi ridesta dalla mia inumazione prematura?”66.
Qualcosa ha svegliato (attivato) Bill e lui ha indossato l’abito nero, elegante, dell’occasione definitiva
(Villa Somerson e Ziegler): Alice, il parassita onirico che fa indagare, sondare e girovagare Bill, di
sbieco, per tutto il film; e qualcosa, come ci viene proposto nel film di Spielberg A.I, ha reso unico
David, facendolo diventare alla fine, quando verrà scongelato da una razza nuova progenie della razza
umana che non ha mai conosciuto, il corpo più simile all’umano (perché ne porta i ricordi, ma soprattutto
ne incarna i sogni): la Fata Turchina, a cui Kubrick proprio non voleva rinunciare nelle lunghe
discussioni con i suoi collaboratori. L’idea di un parassita onirico, l’idea di un parassita elettronico 67:
gli sproni del pensiero al fine di possedere un corpo. Allora, riprendendo l’esortazione proustiana
(“stùdiati di sciogliere l’enigma di felicità”), come scrive Carmagnola, in riferimento alla lettura che ne
dà Badiou, diventa:
“cogli nel tuo essere ciò che ti ha colto e rotto” 68.
Il progetto di Kubrick era, sin dai tempi di The Pinocchio Project, incentrato sulle percezioni tattili e
non diversamente sarà per Bill che cerca, in Eyes wide shut, minuziosamente (con la steady che lo segue
ovunque), di percepire e perlustrare, tattilmente, ogni quasi-oggetto corporeo che incontra nel suo
girovagare. Ossessione, questa, affine al Pinocchio parallelo di Manganelli: guardare, toccare, acquisire
uno sguardo tattile, possedere un corpo.
“Si sveglia il nulla, qui. È una assai strana concentrazione, questa: distrae (io distrarmi? Si, d’accordo, è la
carne!)”69.
Gli sproni, i parassiti, il nulla e infine, la carne. Il personaggio, Alice, lo aveva inizialmente disconnesso
in quel confronto in camera da letto dopo lo spinello, attivando in lui, con la sua formula sibillina “se
solo voi uomini sapeste”, solo la postura dello scarto e della distorsione nella percezione della realtà: lo
aveva parassitato tecnicamente, e Kubrick organizza tecnicamente in lui il veleno con un solo flash, in
una sola ed unica inquadratura che si mette al lavoro nella sua mente per tutto il film: buio, bianco e
nero, nessuno sfondo, il nulla al lavoro insomma, a rallentare, ottenendo così una completa astrazione
della realtà diegetica. Quel dialogo rivela uno dei piani di lettura fondamentali di Eyes wide shut, ossia
che l’inadeguatezza del Soggetto è dovuta al suo ingresso nel mondo del Linguaggio. Pertanto:
“In quanto “personaggi” entrambi ignorano che il rispettivo loro linguaggio orale, la nominazione, e l’afasia
dell’articolazione stessa, sono determinati dalla foggia e il colore dell’abbigliamento”70.
66 Rä di Martino, Carmelo Bene. Là dove muore, canta, Humbolt Books, Milano, 2023, pp. 6-7.
67 Op. cit. min. 6:04.
68 F. Carmagnola, Deleuze, il non-tutto in immagine, Mimesis, Milano, 2022, p. 63.
69 Rä di Martino, Carmelo Bene. Là dove muore, canta, Humbolt Books, Milano, 2023, p. 8.
70 Ibid. p. 7.
Ecco lo scarto, il paradosso che, dopo l’ultimo capolavoro del maestro, tanto cinema contemporaneo ha
dovuto affrontare tecnicamente: si credeva alla fedeltà coniugale tra vedere e comprendere, ma qui,
Alice, ci fa cenno con la parola che non è più possibile guardare e basta, avvera la profezia di Benjamin
circa l’inevitabile distrazione dello spettatore di fronte agli schermi contemporanei. Agente distratto, lo
spettatore è portatore di uno sguardo che non ha la potenza tecnica per concentrarsi e dominare l’atto
del vedere-tutto, anche se lo desidera ossessivamente, e deve invece negoziare incessantemente con gli
altri sensi la gerarchia dell’attenzione concessa agli inesauribili stimoli del flusso che arrivano dalla
risorsa reale-virtuale chiamata mondo; in breve, non gli resta che celebrare la propria impotenza. Bill e
Pinocchio: il nuovo regime scopico parallelo offerto alla fine, terminale ed interminato, da Stanley
Kubrick. Il nuovo spettatore potenziale, scrive Canova:
“Nella tensione di uno sguardo che vuole tenere aperti gli occhi ma che al contempo è anche disposto a chiuderli
e a fare a meno di loro, si delinea cioè la fisionomia di uno spettatore che è disposto a tutto – anche a guardare
con le dita – pur di non perdere il contatto con un cinema che magari non ha più rapporti con un possibile referente
“reale”, ma che continua tuttavia a relazionarsi in modo tutt’altro che virtuale proprio con lo spettatore, e a fornirgli
– se non un immagine o un identità – almeno una possibilità di percezione di sé”71.
Se è una questione coniugale, il nostro primitivo rapporto con il mondo deve considerarsi già connotato
tecnicamente 72, come sosteneva Simondon: Eyes wide shut, disconnette quindi l’estetica post-moderna
della disgregazione del Soggetto per riconnetterlo verso una tecno-estetica altamente relazionale. David
e Bill hanno bisogno di essere ricambiati, elemento sottolineato anche da Ian Watson in The Pinocchio
Project 73, così come nelle favole, la principessa: il colpo di genio di Kubrick, la mossa impercettibile
nel ricercare quell’elemento favolistico che accomuna entrambi i progetti e che ci introduce verso
l’ultima inquadratura del film, non a caso nel tranquillo e familiare mondo dei giocattoli. Ora tocca sia
a Bill che a David il momento della ri-conessione, del ri-congiungimento; come afferma la Maitland, è
il momento in cui:“viene ricostruito, riconnesso” 74.
Bill chiede alla moglie cosa rimanga loro da fare e, mentre passeggiano tra i giocattoli, in un ambiente
che regala un atmosfera così simile a quella del paese dei balocchi di Pinocchio, un insistito primo piano
di Alice, il personaggio, e della Kidman, l’attrice, preparano con dinamica a rallentare le chiusure dei
film: da un lato quella del macro-testo, dall’altra quella del micro-testo, della trama miniaturizzata,
versione trailer che si lega, con geometria ellittica, a quella prima inquadratura tra i credits, con il corpo
statuario della Kidman (e non dell’attrice). Diversi istanti ed ecco la risposta: “fuck”, tra freddezza
formale ed eccesso recitativo, la parola-evento, l’immagine-evento che sfugge alla logica del progetto,
71 G. Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Firenze, 2022,
pp. 198-199.
72 Ibid. p.126.
73 Op. cit., min. 36:12
74 Ibid. min. 37.42.
ciò che non si è lasciato vedere propriamente nella visione della proiezione diegetica. L’azione di Alice,
l’azione della Fata, con le parole di Wittgenstein, potremmo dire che esse sono l’im-progettabile, “il
balenare improvviso dell’aspetto” 75 che sembra richiederci e richiamarci ad un certo grado di
affettibilità; Kubrick e la ricerca del film esemplare, dell’immagine come della parola esemplare, che ci
risveglia dai nostri infiniti ed insondabili doppi sogni. Potenza ed Impotenza. Carmagnola nel suo testo
richiama quanto scrive Beckett e scrive:
“quando il senso è sonno, la parola dorme” di Beckett, richiama irresistibilmente la battuta paradossale di Crisippo,
citata il Logica del senso: “se tu dici qualcosa, questo passa per la bocca; ora, se tu dici “un carro”, un carro quindi
passa per la tua bocca”76.
Alice dice “fuck” e l’affezione della carne passa per la sua bocca: possedere un corpo, il verbo, lo
sguardo, il contatto, il film e la favola, stanno dentro la bocca di Alice nella puntualità di quel momento.
Gli itinerari paralleli del regista e dell’uomo Kubrick, le tematiche della sua filmografia, la sua
incredibile padronanza tecnica, la sua enorme coscienza metalinguistica, Eyes wide shut e The
Pinocchio Project. Scrive Manganelli:
“Un libro non si legge; vi si precipita; esso sta, in ogni momento, attorno a noi. Quando siamo non già nel centro,
ma in uno degli infiniti centri del libro, ci accorgiamo che il libro non solo è illimitato, ma è unico. Non esistono
altri libri; tutti gli altri libri sono nascosti e rivelati in questo. In ogni libro stanno tutti gli altri libri; in ogni parola
tutte le parole; in ogni libro, tutte le parole; in ogni parola, tutti i libri. Dunque, questo “libro parallelo” non sta né
accanto, né in margine, né in calce; sta “dentro”, come tutti i libri, giacché non v’è libro che non sia “parallelo”77.
I suoi film paralleli, la cui espressione linguistica per eccellenza rimane il paradosso. E se, come
sostiene Deleuze, il verbo del paradosso è l’infinito, allora, la sintesi esemplare degli itinerari paralleli
e terminali del regista78 che riguardano l’evento-Bill e l’evento-David: ghiacciare, scopare. L’esemplare
del regista pensante ci regala un ultimo commiato nella sua ultimissima battuta cinematografica,
mostrandoci la parola-simulacro come metafora dell’attività di pensiero, poiché, come scrive Carmelo
Bene:
“Essere pensati è una fatica dura. Pensare è chiamare”79.
75 F. Carmagnola, Deleuze, il non-tutto in immagine, Mimesis, Milano, 2022, p. 62.
76 F. Carmagnola, Deleuze, il non-tutto in immagine, Mimesis, Milano, 2022, p. 16.
77 G. Manganelli, Pinocchio un libro parallelo, Adelphi, Milano, 2002, pp. 122-123.
78 V. Zagarrio, Per Kubrick, Dino Audino, Roma, 2020, p. 39.
79 Rä di Martino, Carmelo Bene. Là dove muore, canta, Humbolt Books, Milano, 2023, p. 9.