Petrit Halilaj – Space Shuttle in the Garden
Fino al 13 marzo 2016
Petrit Halilaj – Space Shuttle in the Garden
Milano, Pirelli HangarBicocca
UTOPICI DETRITI DEL SOTTOSUOLO
Manovra recinto. A partire dalla tristezza farsi Tempo1
. In modo esemplare questa formula attraversa i
processi poetici che compongono le installazioni del giovane artista kosovaro Petrit Halilaj (Kosovo,
1986). La mostra con cui HangarBicocca celebra il suo lavoro, la prima in Italia, si apre con due
installazioni, They are Lucky to be Bourgeois Hens (2008), un piccolo acquario poggiato su un piedistallo in
ferro a forma di zampa di uccello e al cui interno si muove morbida una piuma di gallo, invito ad un
volo leggiadro verso un sogno utopico da condividere e, collegata a questa in un percorso che porta il
visitatore fino all’esterno dell’area espositiva, condiviso con le sue galline, They are Lucky to be Bourgeois
Hens II (2009).
Tracciare un cerchio, il recinto, ed all’interno ri-creare l’intimità di un ricordo, l’atmosfera di una casa, un
raccogliere elementi dalla propria memoria (le galline) e combinarli in un faccia a faccia, corpo a corpo di
energie pure, altra formula chiave di alcune performance dell’artista, con elementi feticci (il razzo
colorato all’interno blu klein) provenienti da una serie esterna e trasformarle così in una mitologia
privata, insieme di forze ironiche ed utopiche, nostalgiche ma al contempo pronte allo slancio verso un
futuro da compiere.
La gallina, metafora storica anche di una realtà contadina di migrazione, grazie ai suoi movimenti ad
interruzione e scatti imprevisti, eleva a qualità principale di questo faccia a faccia con la memoria,
l’accelerazione; incarna ironicamente entrambi gli insiemi, da un lato la precipitazione smemorata della
propria specie e dall’altro appropriandosi del sogno di un’altra, diviene pura metafora di un acutezza
estrema del pensiero, pronta a variare la propria andatura, diviene corpo utopico di un volo possibile.
Come sosteneva Proust, le essenze non esistono se non in uno stato di prigionia, ma non si separano
dalla patria conosciuta. Halilaj genera il poetico da questo stato prigioniero o di sotto assedio, ricordando
così ad un tempo memoria collettiva e memoria privata.
In Is the First Time Dear that you have Human Shape (2012-2015) l’artista ri-crea utilizzando il metallo i
gioielli ingranditi di cento volte che la madre aveva sepolto e nascosto assieme ai suoi disegni durante i
bombardamenti, ma ponendo nell’incastonatura le ceneri della loro casa andata distrutta invece delle
pietre; l’utilizzo di materiali poveri è una chiara referenza alle correnti degli anni sessanta e settanta della
Land Art e l’Arte Povera, ma si caricano in lui di suggestioni diverse legate alla propria memoria.
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 1 Canetti E., La tortura delle mosche, Milano: Adelphi, 1993, p. 60.
In questa prospettiva, nel tentativo di sublimare il proprio vissuto biografico, avviene una strana
operazione nella memoria, ricordi si lasciano da parte, ricordi divengono cose rare ed alcuni che
prendiamo come un insieme: manovre ad aggiramenti delle immagini che si fanno innanzi nella memoria,
cercando di correggere quelle figure di sofferenza per ritrasmetterle in una nuova lingua perfettiva che ci
consentirà di ricordare meglio.
L’uomo somma delle sue disgrazie, come scriveva Faulkner, sublima il ricordo in momento, traccia nello
spazio la conversione da tempo perduto a tempo ritrovato.
Manovra ramificata. In The Place I’m looking for, my Dear, are Utopian Places, They are boring and I don’t
know how to make Them Real (2010) realizzata con dei casseri in legno utilizzati per la costruzione della
nuova casa della famiglia dell’artista a Pristina, occupa lo spazio come planimetria del sottosuolo, come se
se casa nostra fosse, innanzitutto, una questione di ridefinire le fondamenta.
Come scrive Gilles Deleuze riguardo ai territori, adesso, invece, siamo a casa nostra. Ma casa nostra
non è preesistente: si è dovuto tracciare un cerchio attorno al centro fragile e incerto, organizzare uno
spazio limitato; Halilaj isola degli elementi della casa vissuti prevalentemente dai singoli, gli spazi limitati
cui mi riferivo, e li trasporta altrove all’interno dell’Hangar rispetto all’area, forse la più fragile, perché
esposta all’incontro difficile con l’Altro che delimitava nella casa le zone di condivisione creando
autonomie del ricordo, per poi renderli vacanti, gettandoli verso l’esterno come a creare una regione di
scambio prodotta dalle stesse memorie che protegge; un intromissione che li sollecita, nel senso di far
vacillare, affinché aprano un fianco del cerchio-recinto della memoria prigioniera su un futuro da
improvvisare, verso il sogno utopico di raggiungere il mondo e confondersi con esso, interno ed esterno,
l’uno sull’altro, ramificazione dello spazio del ricordo individuale su quello collettivo e viceversa.
Si Okarina e Runikut (2014) ed 26 Objekte n’Kumpir (2009) sono lavori che sottolineano l’approccio
dell’artista alla combinazione per contrappesi, a volte di elementi raffinati e leggeri come i sottili fili di
ottone che sorreggono in una doppia funzione tra precarietà ed utilizzo delle ocarine in argilla, altre
come il possente ed aggressivo intreccio di rami e terriccio, detriti della terra, sostenuto a mezz’aria da
esili e docili sostegni con al suo interno teche impreziosite da luci al neon che illuminano gli oggetti
d’uso appartenuti alla sua famiglia.
Da qui inizia l’utopico, dal momento in cui si prendono due oggetti differenti e se ne stabilisce un nuovo
rapporto grazie alle manovre della memoria, saldandoli ai recinti necessari dello stile nell’arte: differenze
interiorizzate, divenute immanenti, come scrive Proust nella Recherche.
Who does the earth belong to while painting the wind (2012), un video realizzato dall’artista sulle colline della
propria infanzia e Cleopatra (2001-2013), una scultura sospesa che disegna le scie luminescenti delle
traiettorie vorticose ed imprevedibili di una farfalla nello spazio, pongono l’accento ancora una volta
sull’esigenza di procedere per contrasti in Halilaj; segni incontrati che forzano il pensiero, da un lato il
sonoro docile e carezzevole della natura circostante con il vento a comporre suoni e colori del giorno-
mondo, dall’altra l’affannosa speranza prodotta in un corpo a corpo nella mente dell’artista dai propri
ricordi, dalle sofferenze di una memoria biografia del sottosuolo che chiedono di essere portate dall’arte
altrove.
Gianluca Chioma
mostra visitata il 2 dicembre 2015
dal 2 dicembre 2015 al 13 marzo 2016
Petrit Halilaj – Space Shuttle in the Garden
a cura di Roberta Tenconi
Pirelli HangarBicocca – spazio SHED
Via Chiesa, 2 – 20126 Milano
Orario: Lun-Mar-Mer: chiuso – Giov-Ven-Sab-Dom: 11-23
Ingresso: gratuito
Info: tel. (+39) 02 66 11 15 73; fax (+39) 02 64 70 275; info@hangarbicocca.org;
www.hangarbicocca.org