Kentridge – The refusal of time
WILLIAM KENTRIDGE
THE REFUSAL OF TIME
Metropolitan Museum of Art, New York 2014
La Passeggiata-immaginario
Accerchiamento I. Posizionamento dell’opera: un passaggio del Metropolitan Museum of Art, una
porzione di luogo e di tempo sottratta alla vocazione fruitiva lineare della struttura museale.
L’occasione: assistere alla visione dell’installazione realizzata tra Dicembre 2010 e Gennaio 2011
dall’artista sud africano William Kentridge e presentata nel 2011 a Documenta.
Dobbiamo poi noi posizionarci. Primo problema spaziale: le sedie sono orientate e fissate al pavimento;
dobbiamo inoltre accordare un privilegio di lettura del video proiettato su cinque schermi che
accerchiano tutto intorno noi ed un macchinario sonoro chiamato “Elephant”. Falso problema, questa
è la questione che dobbiamo fronteggiare: un’interfaccia di immagini, suoni, movimenti, oggetti e
pensieri scritti che ci suggeriscono cosa sia il rifiuto del tempo ossia la conquista della sincronicità.
Kentridge muove dalla teoria einsteiniana del tempo e realizza uno spazio-tempo curvo di percezione,
dove lo spettatore è costretto alla tenuta simultanea dell’evento, alla vertigine della curva, è costretto a
prendere il proprio tempo: ci sono “tempi” non un “tempo” come insegna Einstein.
Partono i metronomi, i Talking clocks a leggeri intervalli di distanza, primo tentativo di creare uno stato
intensivo d’incontro con il nostro specifico tempo, velocità infinita e veloci
tic-tac. Ma anche tempo come misurazione, come limitrofia, nutrimento del limite che siamo, poiché
“Time is geography” leggiamo, una geografia nomade che libera il pensiero dal problema della radice e
diviene rizomatica, radice demoltiplicata, ancora Glissant, che si estende in reticoli e derivate che
attraversano le varianti-particolari delle possibili trame-mondi: vediamo carte geografiche sugli schermi
che de-localizzano l’idea di un centro di trasmissione del sapere, l’esistenza di un punto di vista
privilegiato. Kentridge gioca con le parole prese dai vocabolari, creando referenze ibride del sapere,
provenienze multiple, nuovi sensi, accerchiamento del domandare, tant’è che il nostro percepire entra
in uno stato di benommenheit (stordimento), per dirla con Heidegger, trascrivendo nel video domande che appartengono allo sforzo di un puro individuale-autobiografico dis-orientantato, esiliato probabilmente, ma al fine di rimanere aperto alla possibilità dell’Altro del pensiero: da li una serie di varie sovrapposizioni-transizioni apertamente associative di carte geografiche, appunti, referenze del mondo classico come il mito della Gorgone, segni tracciati, domande, citazioni e promesse.
Il pensiero è questa ricettività che prende velocità, accelera come il tempo-luce di Einstein e forza,
impone la curvatura a confini, mappature, orizzonti di senso e frontiere; le traiettorie di queste mappe
mentali che Kentridge ci mostra sono accompagnate, come spesso nei suoi ultimi lavori, dalla figura
danzante della negritudine che ci aiuta con la sua presenza a percepire la simultaneità del grido che
rifiuta e del gioioso e delicato assenso poetico.
The mistyque of twins
Accerchiamento II. Kentridge sottolinea che ha compreso realmente il progetto nel momento in cui ha
capito che la tensione che era in gioco riguardava la nostra paura di morire, di incontrare all’orizzonte
dell’evento la sparizione, “Charon at horizon event” leggiamo.
Il richiamo alla scienza appare qui ancora una volta evidente: la parola horizon descrive anche la
superficie dei buchi neri, destinazione inevitabile del conoscibile secondo la teoria delle stringhe; quello
che emerge però è che non si tratta di una resistenza della nostra mortalità per evitare questa
destinazione, ma un resistenza alla pressione che preme in noi e su di noi.
In termini coloniali il rifiuto appare come rifiuto del senso Europeo dell’ordine imposto dalla “time
zones” e non certo in termini solo letterali: in questione c’è la tendenza a chiarire tipica dell’Occidente a
non accettare il plurale e il diverso, il tempo differito come gemello gnoseologico. L’antefatto storico è
l’attentato anarchico del 1894 a Greenwich presso l’osservatorio astronomico; l’artista lo ricrea sui
cinque schermi in cinque luoghi diversi del mondo, ancora simultaneità e tempi e non un solo tempo di
visione, rappresentare cioè l’evento sotto forma di serie, un mondo barocco, che non sottovaluta le
dipendenze sensibili dalle condizioni iniziali di un sistema e che si prepara alla piega dell’evento.
Le danzanti negritudini sono legate da un patto gemellare di sincronicità, si preparano, si educano
all’evento, ossia tramano un certo ordine, un essere qua-là che trama l’ordigno; durante le goffe
misurazioni degli scienziati dell’ordine-legittimo lineare, all’insaputa dei quali un certo tempo sta per essere distrutto, esse preparano la condizioni della propria nuova musicalità, “spot the time!” qualcuno grida, a cui segue la dismisura e l’ebbrezza della varianza: tutto è in aria.
Muovendoci con lo sguardo lungo le cinque scene abbiamo la sensazione che tutto stia accadendo
come per contagio, come se ognuna delle figure borbottasse in sé “qui devo agire”: estetica della
turbolenza come ci viene insegnata da Glissant, un tentativo di resistere, di riappropriarsi, come dice lo
stesso Kentridge, del nostro sole, “Give us back our sun”; ma anche tentativo di ri-chiamare l’accidente
come terreno di sforzo e compimento etico-poetico.
Gli scienziati tentavano di misurare in linea, ne facevano un problema longitudinale; le figure ibridodanzanti della negritudine lo fanno disegnando-misurando vortici nell’aria. L’accidente è misurabile: l’artista scrive una formula in un altro lavoro, The Refusal of hour del 2012, “UNDO, UNSAY, UNHAPPEN, UNREMEMBER” che non deve certo suonare come un proclama di passività: non ci sono stati passivi nel mondo-eco a profusione di queste esplosioni barocche, astenersi invece da un
certo pensare equivale ad accordarsi con la parola flessibilità, ossia varianza degli strati, immagini, suoni, pensieri, un faccia a faccia, ogni volta diverso, o meglio, ad ogni tempo con i suoi tempi.
Questa particolare sequenza di The Refusal of time risulta così una perfetta sintesi di forza sovversiva e
poetica, un potente atto di deflagrazione, ma anche un momento di nuovo respiro, di nuova sonorità;
l’artista stesso ha sottolineato l’importanza di avere al centro del progetto una sezione in cui gli oggetti
sulla scena cambiano velocemente, un accelerazione, un éclat, una scheggia, un esplosione e un boato
che manda in pezzi i laboratori dell’informazione generalizzata, ne fa scoria, caotizza il tutto; un
operazione dada, di annullamento e ricombinazione, sostituzione e ri-appropriazione dove infine sono
diventate, le stesse figure del sabotaggio, ibride uomo-macchina, danzatrici goffe e robotiche i cui
movimenti ripetitivi ed erotizzanti producono traiettorie dell’assalto che portano in aria sotto forma di
coriandolo gli scarti della scena, vorticizzano, potrei cosi dire, le dissolte materie prime con cui gli
scienziati misuravano la regola, per richiamarci ad un qui ed ora a tempi multipli e di inter-scambio che
consegna alla domanda sul tempo il modo della interattività.
Obliquità dei gridi
Accerchiamento III. Gli elementi del lavoro di Kentridge entrano ed escono continuamente da una
sezione all’altra della proiezione, modificano il loro stato, disorientano cancellando continuamente le
tracce del loro obliquo passaggio: vere e proprie migrazioni sotto il dominio della formula, “questo potrebbe essere anche un’altra cosa”, come scrive l’artista stesso.
Movimenti caotici che predispongono le immagini-suono a ridefinirsi ogni volta secondo rinnovate
peculiarità, a ri-allacciarsi come Relazione seguendo una serie di trame congetturali; arriviamo così
all’esasperazione ossia i coriandoli-frammento-nero della scena che si ri-organizzano e conquistano ora
un piano spazio-tessitura come schermo completamente nero, presagio forse di quel buco nero
destinazione e dissolvenza finale delle cose.
E poi ancora accidente, l’artista disegna e traccia, bianco su nero, linee che si spezzano, il caos che si riorganizza in nuove biforcazioni: inizia la sezione che Kentridge chiama “Particular collisions”che
richiama alla mia mente lo “spazio delle fasi”, uno strumento matematico inventato da Poincaré che
descrive graficamente il comportamento di un sistema dinamico nello spazio; quello che ne risulta, se il
dinamismo è caotico, sono strane figure geometriche, definite dal fisico David Ruelle come attrattori
strani, così anomale da disegnare curve a-periodiche, curve cioè che non si ripetono mai identiche le une
alle altre: assistiamo così alla nascita di mondi-immagine del tutto particolari, estensione frattale del
pensiero che non tenta di chiarirsi.
Arte e scienza, come sosteneva il filosofo Arthur Schopenhauer, con-vivono grazie alla capacità di un in
più di pensiero, di una percorrenza e tenuta dei margini che fa da filo conduttore di The Refusal of time,
tramano il poetico inteso come desiderio di affermare ed affermare è togliere peso, sostiene Glissant:
entriamo così nello stato successivo, uno dei codici linguistici chiave di Kentridge; il profilo ombra.
Schermi vuoti: riordino e pulizia, tempo anche come riposo, caos che riorganizza l’assalto; come nella
letteratura dello scrittore americano William Faulkner, la Figura si appresta ad entrare sulla scena, ad
emergere dalla polvere ed uscire dal recinto particolare della piantagione, introdotta da un suo(no)-grido
che costituisce l’inizio dell’avvenimento e ci indica simultaneamente l’inizio-sezione, sui cinque schermi,
della processione di ombre che inesorabilmente muove contro l’oscurità rivendicando il possesso del
proprio Tempo-speranza; “quanto alla mia identità provvederò da solo”, scrive Glissant.
Il canto di queste figure-ombre solenni è una messa in relazione di echi-mondo rivelatori, come direbbe
ancora Glissant, che ci bisbigliano e a tratti gridano l’incontrollabilità del corpo differenza e del corpo
Tempo da parte di un sapere-ideale che legittima da un punto di vista univoco le condizioni della
presenza, “Give us back our sun”, ricordiamolo: una processione che produce musica estensiva in noi,
che preme sul cardiaco, rivendicazione del proprio tempo particolare che percorre i cinque schermi come
Cantus planus, riverberando a tempi simultanei l’impossibilità di profilare il pensiero in modo esaustivo,
di concludere e chiarire la questione e che soprattutto canta l’impossibilità di rimanere circo-inscritti in un recinto-tempo universale