Borremans – Black mould
MICHAEL BORREMANS
BLACK MOULD
David Zwirner, 24 Grafton Street, London June 13 – August 14, 2015
Dico che non mi vedo.
Mi intendo dirlo. Mi dico che non mi vedo. Qui mutismo e sordità vanno di pari passo 1.
L’artista Michael Borremans offre in occasione della mostra svoltasi presso la galleria David Zwirner di
Londra, l’occasione di un faccia a faccia con “figure non vere”, metafore che Fontanier chiamava
catacresi, tropi della torsione che vanno contro l’uso: vagheggiamenti.
Barcollanti sul proprio posto, accerchiati da un teatro invisibile, sono incapaci di contemplarsi, non
hanno rapporto con un viso perché avvolti dal nero ansimante che li orienta invincibilmente; le figure
che chiama Pogo, braccano l’eco del proprio suono interiore perché per vivere, più che di mete precise,
abbiamo bisogno di una visione 2.
Un effetto di giro, di un rigiro o di una deviazione, ma anche goffa danza sul posto e stordimento e
caduta di coscienza. Non possono né essere nominati né dare luogo a delle definizioni ma gettare altra
presenza dividendosi in due: minemi, doppi fin troppo somiglianti, gente di cui non si sa nulla, avi di sé
stessi, successione di capri espiatori per distribuire con maggiore equità il peso del proprio fardello.
Figure della siccità che esigono dissetarsi per tornare a ciò di cui necessita il vivente, darsi, ma attraverso
quale come?
Applicazione di forze. Tutto esiste come funzione e le figure di Borremans sono come soggetti larvali,
solo sintomatologi che agiscono sul luogo della drammatizzazione, Disaster, Glass Ghosts e The Leafs
sono opere che lo testimoniano; in essi esercitano l’attualizzazione, posizionati come nei Pogo in una
superficie di area minima e guidati da forze involontarie che li autorizzano al bedeuten (voler-dire).
Danzano in cerchio in uno spazio che non è di nessuno, dove non c’è finzione o riflessione, né detto o
ancora non detto, ma solo tra di loro: eseguono riti raccogliendo brandelli di carne dal pavimento e come
giocolieri li utilizzano per rotazioni e per strategie anonime quasi mute e cieche, sperimentano a tentoni come direbbe il filosofo Gilles Deleuze, il piano di composizione dell’immagine, ne pre-figurano la carnalità usando la carne stessa e purificandola con il fuoco.
Ancora in cerchio, The badger’s song, intorno alla figura del tasso-tassonomia, la figura della regola e della classificazione: ma la pagina è bianca, non c’è stratificazione in questo piano d’immanenza prefilosofico, qualcosa si realizza nel corpo, qualcosa preme nel buio ansimante; che significa mi trovo? Ho una chiara coscienza del mio essere qui? Il Reale è ancora all’interno dei Black Mould.
E allora domandiamoci con Canetti: a cosa si applicano e puntano questi soggetti?
Alla massima plurivocità.
1 Derrida J., in Margini, Torino: Einaudi, 1997, p. 367.
2 Canetti E., La tortura delle mosche, Milano: Adelphi, 1993, p. 54.